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Il I Canto dell’Inferno della Divina Commedia in versione acquariofila da parte del Poeta Flavio Emer

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Questi parea che contra me venisse                             La bestia parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,                            rodendomi l’acropore l’infame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.                             sì che di tanti metri s’ingrandisse.

Ed una lupa, che di tutte brame                                   Colei la piaga immonda del reame
sembiava carca ne la sua magrezza,                            strisciava nel splendor di sua bruttezza,
e molte genti fé già viver grame,                                  spavalda come volpe tra il pollame,

questa mi porse tanto di gravezza                               pur se l’Lps non disprezza
con la paura ch’uscia di sua vista,                               va sugli Sps a far provvista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.                           dolor mi diede tanta efferatezza.

E qual è quei che volontieri acquista,                         E quando quei un nuovo acquario acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,                           e giunge ‘l tempo di goderlo in pace,
che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;               riappar lo verme sporco terrorista;

tal mi fece la bestia sanza pace,                                   allor si prova cloro uranio antrace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco                    che il rischio della casa importa poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace.                                    qualunque mezzo fin che il mostro giace.

Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,                            Mentre lui resisteva a far trasloco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto                                  e stava nella tana ben coperto
chi per lungo silenzio parea fioco.                               cosparsi col petrolio e diedi fuoco.

Quando vidi costui nel gran diserto,                           Decisi d’accettar anche il deserto,
“Miserere di me”, gridai a lui,                                       “Miserere di me”, che tempi bui,
“qual che tu sii, od ombra od omo certo!”.                 “qual che tu sii, io più non mi diverto!”.

Rispuosemi: “Non omo, omo già fui,                           Rispuosemi: “Io son eunice e già lo fui,
e li parenti miei furon lombardi,                                   e li pezzetti miei sotto i tuo’ sguardi,
mantoani per patrïa ambedui.                                       son divenuti cento mille altrui.

Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,                       Nacqui substrato, da genitor bastardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto                          e vissi di nascosto al punto giusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.                               uscendo nella notte quand’è tardi.

Poeta fui, e cantai di quel giusto                                   Parassita fui, e mangiai di gusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,                          fra tanti bei coralli non s’annoia
poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.                           succhiando prima i rami e poscia il fusto.

Ma tu perché ritorni a tanta noia?                                Ma tu perché vuoi esser il mio boia?
perché non sali il dilettoso monte                                 perché non prendi a disboscar lo monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?”.                        ch’io goda le montipore con gioia?”.

“Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte                           “O bestia immonda dalle bieche impronte
che spandi di parlar sì largo fiume?”,                          non puoi altrove spargere lordume?”,
rispuos’io lui con vergognosa fronte.                           rispuos’io con terribil rabbia in fronte.

“O de li altri poeti onore e lume,                                   “Da me quadruplicato è il tuo volume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore                  divieni d’altra vasca abitatore
che m’ ha fatto cercar lo tuo volume.                           pria che ti prenda e getti nel pattume.

Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,                          Tu se’ del sonno mio persecutore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi                                        tu se’ la carie al dente che non tolsi
lo bello stilo che m’ ha fatto onore.                              lo più meschino e laido malfattore.

Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;                                  La roccia viva che incauto raccolsi;
aiutami da lei, famoso saggio,                                       caval di Troia vile sabotaggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi”.                          sfiga da far tremar le vene e i polsi”.

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4 COMMENTS

  1. Complimenti, veramente un lavoro eccellente.
    Era dai tempi delle superiori che non leggevo Dante, ma non ricordavo fosse così spassoso!!!!!!! ((-;

  2. Magnifico,
    un adattamento in chiave acquaristica rispettando le terzine e nel limite del possibile anche gli endecasillabi.

    Che dire, ho scritto più volte che le tue sono poesie in prosa e ovviamente per contraddirmi hai tirato fuori una poesia in versi 😀

    Bravissimo 😉

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